Anna

Stavo bene ed avevo tutto ciò che una giovane donna può desiderare.

Un lavoro che mi piaceva, un fidanzato, una famiglia bella e numerosa e buoni amici. Non ero sempre stata felice, ma a questo non ci pensavo più. La mia maturazione e la mia realizzazione mi portavano a guardare al futuro come a un prossimo tempo di vita, esperienze, successo. Avevo studiato infermieristica a Milano, mi ero laureata a pieni voti, avevo trovato subito il lavoro al San Raffaele e avevo iniziato a studiare per un master di perfezionamento. Col mio fidanzato avevamo deciso di vivere assieme ed ero felice. Stavo insieme con Andrea da pochi mesi quando ho iniziato a stare male. Non avevo mai conosciuto l’ospedale se non come infermiera.

Per me la malattia erano gli altri, quei pazienti cui mi dedicavo nel lavoro.

Ero ammirata e forse anche invidiata per come ero e ciò che avevo. Quando un medico mi disse che il mio emocromo presentava delle anomalie e che andava analizzato meglio, pensai che fosse un problema di mancanza di vitamine e forse conseguenza di una dieta vegetariana. Solo dopo qualche tempo e con molta insistenza da parte della mia famiglia mi decisi a rivolgermi a uno specialista di ematologia. Passarono settimane tra visite ed emocromi, intanto continuavo a lavorare e a vivere senza troppo preoccuparmi, d’altronde avevo molte cose da fare e non avevo tempo di pensare alla salute e a possibili malattie. Perdita di tempo, pensavo, sono sempre stata bene! Prima di allora vivevo la mia vita come una normale ragazza di 29 anni tra lavoro, studi universitari e amici. Non badavo certo, occupata come ero con la mia vita intensa ai piccoli segnali d’allarme che il mio corpo mi dava come la stanchezza, le gambe spesso dolenti e gonfie… Ma mai una febbre, mai uno svenimento. Un giorno il medico ematologo che aveva preso in carico il mio caso mi chiamò, mi disse che doveva con urgenza parlarmi e che sarebbe stato meglio che fossi andata accompagnata dai genitori. Venne mio padre dal Veneto, che è anche medico e ci presentammo nell’ambulatorio di ematologia del San Raffaele. Il medico ci disse che era necessario approfondire un sospetto di malattia del sangue. Bisognava eseguire l’ago aspirato, un prelievo dall’osso dell’anca di midollo e tessuto osseo. Questo esame, doloroso e per me complicato, doveva essere l’ultima cosa che ero disposta a fare. Non avevo tempo da dedicare a questo problema che ritenevo un “falso” problema e un inutile, fastidioso inconveniente. La diagnosi arrivò dopo 48 ore. Il medico mi chiamò e mi disse che doveva parlarmi con urgenza. Ci andai il giorno dopo, questa volta accompagnata da mamma e papà.

Ci disse che si trattava di mielodisplasia con eccesso di blasti, malattia rara nota come pre-leucemia.

Il decorso della malattia era fortunatamente lento e si poteva intervenire. Non c’era altro da fare che un trapianto di midollo osseo da un donatore. Primi in lista i miei due fratelli, come possibili donatori. Nello stesso tempo il medico trasmetteva la richiesta alla banca dati internazionale, alla ricerca di un potenziale donatore, qualora i miei due fratelli non fossero risultati compatibili. Intanto, anche Andrea e alcuni nostri amici si erano resi disponibili come possibili donatori e si erano iscritti alla banca dati. Chiesi al medico quando si sarebbe fatto il trapianto, mi rispose, non prima di 6 mesi. Ma io a giugno dovevo far da testimone alla mia migliore amica? Il medico mi disse che dovevo rinunciarvi … ero arrabbiata con me stessa, con la malattia e con il mondo. Ma ciò che mi fece veramente infuriare fu la lunga attesa alla sede dell’ASL per avere il riconoscimento delle esenzioni per accertamenti e quant’altro relativo alla mia invalidità. Si, avevo diritto a questi benefici a causa della mia malattia. Ma ci avrei volentieri rinunciato. Non mi sentivo né invalida né soggetta a limitazioni! L’attesa all’ASL fu davvero estenuante. La mia rabbia cresceva, e quando fu il mio turno trattai con ingiustificata durezza l’impiegato che mi ricevette per perfezionare la pratica. Ancora oggi se ci penso me ne vergogno! Me la presi con chi non c’entrava nulla con la mia malattia … ed era lì a fare il suo lavoro, non certo divertente! Iniziò la lunga attesa. Trascorsi le vacanze di Natale e Capodanno alle Canarie con la mia famiglia al completo, da quando ero diventata adulta non era mai successo. Fumavo nervosamente e mi isolavo a pensare.
Per tutta la vacanza non si parlò di malattia, ma sentivo sulla pelle la preoccupazione di chi mi voleva bene. Mio fratello maggiore risultò donatore compatibile al 100%, l’altro fratello al 50%.

Ero circondata da affetto e sostegno, ma mi sentivo comunque sola.

Ero io e non gli altri ad essere malata, ero io e non gli altri che dovevo subire il ricovero, l’intervento, i rischi, e le conseguenze. Leggevo e mi informavo sulla malattia, aggrappandomi alle speranze statistiche di riuscita. Ma il dolore era necessario. Mi sentivo depressa e impotente, ma avevo voglia di lottare. Dovevo lottare per non deludere chi amavo e mi amava. E poi ci mancava anche la pandemia per rendere tutto ancora più incerto e difficile. Finalmente arrivai al ricovero in Ospedale, reparto di oncoematologia. Gli esami preparatori erano perfetti. Ero una giovane donna in perfetta forma e salute. Ma col sangue malato, gravemente malato. Dovevano sostituirmelo col sangue di mio fratello. Facile a dirsi, ma molto complesso è l’intervento di trapianto del midollo. Devono prima eliminare chimicamente tutte le cellule malate, e questo comporta un totale isolamento per evitare infezioni, che potrebbero essere fatali. Poi una volta trasfuse le cellule staminali del sangue di mio fratello, c’era un tempo di attesa perché attecchissero e si riformasse un nuovo midollo osseo capace di generare le nuove cellule del sangue, queste sane ed efficienti a ridarmi forza e vitalità. Ed ancora il trattamento immunosoppressivo per evitare un eventuale rigetto. Affrontai la dura prova del taglio dei capelli. Mi dovevo preparare a perderli tutti e per chissà quanto tempo restare pelata! Molte medicine mi venivano somministrate con una azione tossica e devastante sul mio organismo. Stavo male, molto male. Ero isolata. Il telefono era l’unico contatto con l’esterno, i miei genitori, il mio fidanzato e i suoi genitori, tutti i miei amici. Ma stavo male anche nel vedere il mio volto e il mio corpo trasformato dalle terapie. Avevo perso tutti i capelli, i miei lunghi capelli castani che erano il mio orgoglio e che adoravo pettinare e curare. Ora erano sostituiti da una cuffia colorata, non mi piacevo affatto e provavo tanto dolore per le piaghe sulle mucose, per cui non potevo mangiare né eliminare se non a costo di grandissimo dolore.
L’isolamento completo e la solitudine, io e la mia malattia, erano interrotte dalle telefonate frequenti con Andrea e dalle sue “visite” giornaliere. Si, la sera veniva sotto la finestra dell’ospedale, così lo potevo vedere. Dalla finestra, perché individuasse la stanza dove ero isolata, accendevo la torcia del cellulare.

E allora ci scambiavamo segnali, io smarrita in un mare di dolore e lui al sicuro che mi aspettava.

Nello stesso modo, potevo vedere anche mamma e papà, quando ogni sabato portavano in ospedale il cambio biancheria. L’intervento di trapianto era riuscito e molto lentamente mi avviavo verso la fine del ricovero. La dimissione fu come uscire da una prigione. Camminavo con fatica, ero debolissima, dimagrita e sofferente, ma sorridevo felice perché tornavo a casa. Mi attendevano i miei genitori, ma soprattutto il mio fidanzato. Ancora lunghe settimane di isolamento a casa e visite periodiche in ospedale. La riabilitazione fu più lunga del ricovero. Dopo 12 mesi dall’intervento di trapianto ho ripreso il lavoro. Ero cambiata. La malattia mi aveva cambiato. Dovevo attenermi a regole ed attenzioni particolari per non incorrere in problemi di salute, dato che ero considerata e quindi mi dovevo sentire come persona fragile. Accettare questo non è facile, per me che voglio vivere una vita normale come tutti gli altri. Ma era cambiata anche la mia visione delle cose e degli altri. Ho compreso il dono ricevuto, la riacquistata salute. Ma soprattutto ho riconsiderato le mie esperienze e le mie relazioni. Ho imparato ad amare. Una leggenda narra che due persone sono legate tra loro fin dalla nascita e anche se lontane e distanti un giorno si incontreranno e sarà il momento giusto. Andrea comparve proprio in quel momento nella mia vita e fu la mia forza e il mio sole il mio obbiettivo da raggiungere per guarire. Il suo sostegno mi diede la forza di affrontare tutto, le prime trasfusioni, le mille visite ed esami e fu lui a portarmi il 27 maggio 2020 in ospedale e fu lui a riaccompagnarmi a casa dopo 48 giorni. A gennaio 2020 mi era stata diagnosticata la mielodisplasia, una grave malattia del sangue con una prognosi sfavorevole se non avessi fatto il trapianto di midollo osseo. il mio corpo si era abituato a viaggiare con valori di emoglobina sempre al di sotto della normalità. Oggi quegli esami di laboratorio e quei controlli medici che mi sembravano assurdi e spaventosi, comunque una inutile perdita di tempo, sono diventati una routine essenziale per garantire la mia definitiva guarigione. Questa storia a lieto fine ha avuto diversi protagonisti. La scienza medica che oggi permette a molte donne e uomini di guarire attraverso il trapianto. I medici e gli infermieri che mi hanno assistito e continuano a farlo con umanità e competenza. Mio fratello Jacopo che mi ha donato il midollo e la vita. Posso veramente considerarlo il mio grande eroe. Fratello di sangue nel senso più vero del termine. Tutti i miei cari, familiari, amici e colleghi di lavoro. Il mio compagno Andrea, la nostra cagnolina Peggy. Io, Anna Elisabetta, che, a tre anni dall’inizio di questa storia mi ritengo guarita, ho ripreso la mia vita normale. Ho ripreso a lavorare come Infermiera. E ho anche smesso di fumare!

I capelli sono cresciuti e sono tornata a sentirmi bella e forte.

Ma cosa assai più importante per me e per chi amo è che a settembre ci sposeremo …e, ovviamente mio fratello Jacopo ci farà da testimone.