Sono successe cose che non credevo potessero capitare a me.

La mia storia è molto particolare e difficile perché non è comune, anzi è rara. Si perché ho 25 anni, ma sono nata con una malattia genetica rara, così rara che fino al 2014 non era nota in letteratura medica, il suo nome non esisteva da nessuna parte. La mia malattia non aveva un nome, una ”etichetta”. Anzi, io non ho mai detto “ho una malattia che si chiama..” oppure “sono malata di..” non l’ho mai neppure pensato perché come tale non mi rispecchiavo. Perché avevo una serie di sintomi e problematiche che mi hanno fatto raggiungere più volte il limite del rischio di sopravvivenza, ma io un nome non lo avevo. L’unica cosa che provavo era la diversità rispetto a tutti gli altri bambini e ragazzi che avevo conosciuto in ospedale perché molti di loro avevano un nome da assegnare alla loro malattia: “Leucemia” “linfoma” “talassemia” e tanti altri. Si, mi sentivo diversa rispetto a tutti gli altri, mi sentivo spesso su un gradino più basso rispetto agli altri miei amici in ospedale. Io volevo conoscere il nome della mia malattia perché sarei stata a metà strada di un lungo percorso e questo è stato possibile solo nel corso del 2017 all’età di 23 anni. Ebbene sulla soglia dei 23 anni a grande sorpresa l’equipe medica del Comitato Maria Letizia Verga di Monza mi ha detto che per me e la mia gemella Veronica probabilmente avevano trovato il nome della malattia perché tutti i sintomi che sin da bambine la mia gemella Veronica ed io presentavamo combaciavano con quelle descritte da questa nuova ricerca svolta negli USA da un medico israeliano. La malattia si chiamava Ada2 deficency però per averne la certezza i medici ci hanno mandato a fare delle analisi genetiche appropriate all’Istituto Gaslini di Genova. Così ci siamo recate insieme ai nostri genitori in un freddo giorno d’inverno a fare queste importanti indagini genetiche presso l’ospedale di ricerca di Genova. Dopo mesi di attesa è arrivata la conferma: finalmente dopo 23 anni per Anna Maria e Veronica abbiamo trovato il nome al problema genetico che le mette a dura prova sin da quando erano bambine. Mi hanno detto che non esisteva una cura ancora perché era stata appena scoperta nel 2014 e quando è stata diagnosticata a noi era il 2017. Io però la cura non la pretendevo, anzi per me era già tanto che siamo arrivati a sapere cosa avevamo. Per me l’importante era che si potesse migliorare la qualità di vita perché l’incidenza dei miei sintomi dal 2015 è peggiorata notevolmente tanto da compromettere la mia quotidianità.

Un ricordo indelebile che porterò per sempre dentro di me è quando nel  suo  studio  presso l’istituto Gaslini di Genova il dottor Gattorno ci stava spiegando le opzioni terapeutiche e io lo interruppi dicendo ad alta voce “Si ma dottore le mie difese immunitarie sono sempre più basse, crollano sempre di più e ogni volta il mondo mi cade addosso perché ho paura e perché spesso mi trovo a lottare su un letto d’ospedale a causa di questo perché, se questo farmaco che voi ricercatori mi state indicando ha come effetto la soppressione del sistema immunitario, per il mio caso siamo punto e a capo”. Mi ricordo che il dottor Gattorno chinò il capo e mi disse che comunque ogni paziente ha le sue caratteristiche e le sue opzioni terapeutiche e che il mio caso era in mano ai suoi colleghi di Monza e quindi avrebbero scelto loro le terapie più adatte. E così andammo a casa con delle certezze in più. Però nel giro di due mesi la mia situazione è crollata a tal punto da avere 0 neutrofili. Avere 0 neutrofili nel sangue vuol dire avere delle difese immunitarie decisamente scarse e deboli che non ti permettono di combattere le infezioni. Infatti in quei due mesi ho collezionato un sacco di infezioni. Così tante e gravi che se le ricordo ho ancora paura. Sapevo di aver toccato il fondo e pure scavato. I medici di Monza non sapevano più cosa fare perché si stava compromettendo la mia vita stessa e avevano paura. I casi al mondo di portatori di questa malattia al quel momento erano 81, Veronica e io comprese. Nasce così il terrore. La dottoressa Giulia di Monza ha deciso dunque di trasferire il mio caso all’Istituto di ricerca San Raffaele di Milano presso il reparto di immunoematologia pediatrica. Ricordo ancora la prima riunione con tanti medici, ricordo ancora i primi day hospital per capire bene come gestire la malattia sia mia che di Veronica.

Ricordo tutto nei minimi dettagli. Ricordo anche che durante il secondo day hospital nell’ambulatorio del 3 piano settore D il professor Aiuti insieme alla Dott.ssa Maria Pia Cicalese mi ha detto con una serietà che mi spaventa ancora: “Anna Maria l’unica soluzione nel tuo caso è un trapianto allogenico di midollo osseo”. Ho iniziato ad urlare, a piangere dalla disperazione, ad agitarmi, avevo il volto bagnato dalle mie lacrime che cadevano giù fino a cospargere tutto il collo. Erano fresche, le sentivo e le ricordo ancora, perché avevo la pelle calda: avevo la febbre alta. A un certo punto ho urlato: “ Basta io mollo”. Si volevo mollare, in particolare io ero decisa a mollare tutto. È stato il momento più difficile di tutta la mia vita quando ho detto “Basta io mollo”. E il professor Aiuti mi ha sorpresa dicendomi che prima senza una diagnosi e senza una cura potevo mollare, ora abbiamo una diagnosi e una cura per cui non aveva alcun senso mollare. Rimasi zitta per qualche secondo poi ripresi a piangere, ininterrottamente tutto il giorno. Perché mi faceva paura e mi faceva paura perché non capivo cosa c’entrassi io e un trapianto di midollo osseo perché io non avevo una forma tumorale del sangue, ma avevo una malattia genetica rara e sin da piccola mi hanno sempre spiegato che di malattia genetica rara ci nasci, ci cresci, ci convivi e poi muori della stessa. Ero “ridotta all’osso” come ero solita dire, ero cioè arrivata al capolinea. Due settimane circa da quel day hospital sono stata ricoverata presso il reparto di ematologia del San Raffaele per sepsi intestinale e con 0 neutrofili la situazione era abbastanza grave. In quelle 3 settimane intense di ricovero ho conosciuto più approfonditamente cosa è la mia malattia genetica rara grazie alla ricercatrice Maria Pia Cicalese che ora considero come un’amica stretta e insieme a tutta l’equipe medica mi hanno detto che il percorso del trapianto allogenico di midollo osseo sarebbe stata la soluzione più efficiente e che in Italia avevano fatto un trapianto di midollo osseo per questa malattia genetica a un bambino di 4 anni e ad un uomo sulla quarantina con esito positivo e che io sarei stata la terza a livello nazionale quindi.

E così capii che ogni giorno va vissuto come se fosse l’ultimo. Ho conosciuto che cosa è la felicità e ho scoperto dentro di me un coraggio che nemmeno credevo di avere.

Non so come l’abbia trovato, penso solo che quando ci si trova in certe situazioni, il coraggio insieme alla grinta e alla voglia di vivere hanno la meglio. Così il 14 settembre firmai per essere iscritta in lista trapianti ed è una scelta che rifarei altre 300.000 volte. Perché era una vita che aspettavo una diagnosi, ma non ho avuto solo una diagnosi: ho avuto anche la possibilità promettente di una cura, cosa a cui non ho mai creduto! Perché mi è sempre stato spiegato che la cura non esisteva. Però questa volta non bastava più la forza di volontà e la voglia di vivere. Fondamentale e stato l’aiuto di una donatrice a me sconosciuta. Nei primi giorni di dicembre vengo convocata nell’ambulatorio visite e la dottoressa Giulia mi comunica: “Abbiamo trovato la tua donatrice, siete compatibili 9/10”.

Non riuscivo più a pronunciare una parola, neppure a muovermi dalla sedia: ero emozionata. La mia cura alla mia malattia genetica esisteva, era vera, e non era una medicina, ma una persona. Una giovane donna disposta a donarmi una parte di se, ponendo fine a mille dubbi della mia vita, alle mille sofferenze che ho dovuto passare, ai tantissimi ricoveri, alle situazioni gravi in cui spesso precipitavo, ha messo fine alle mie paure, alle mie angosce, al mondo che ogni volta sentivo crollarmi addosso.

E non mi sembrava vero.

Il 15 febbraio 2018 in una stanzetta sterile del secondo piano del settore D dell’ospedale di ricerca San Raffaele di Milano mi sottopongo così a trapianto di midollo osseo. Le emozioni di quel giorno sono state uniche, infinite e indescrivibili. La mia donatrice è riuscita a raccogliere 3 sacche di sangue midollare sottoponendosi alla procedura di espianto. Pensate che dopo che i medici sono passati a visitarmi e poco prima che entrasse tutta l’equipe medica, dall’ansia e dalla paura ho persino vomitato. E mi hanno detto che era normale e che alcuni bambini addirittura si nascondono in bagno! Poi quando i medici sono entrati ero tranquilla come al solito, ma appena la dottoressa Giulia è entrata con la prima sacca in mano avvolta da una copertina azzurra e stavano misurando con l’orologio l’orario di inizio, ho guardato malissimo quella sacca! Perché ho detto: “ma quella sacca tanto grossa e tanto rossa deve entrare dentro di me?” la risposta era: “beh… ormai si!”. Il trapianto è iniziato alle 11.20 con la prima goccia e mia sorella affianco a me insieme alla Dottoressa Maddalena mi hanno detto di esprime un desiderio. È terminato alle 22.25 con l’ultima goccia, con il secondo e ultimo desiderio. È stato il giorno più emozionante della mia vita. Fisicamente ero molto in sofferenza, le cellule staminali erano molto dense tanto che faticavano a scorrere tramite i deflussori e all’interno del mio CVC. Il cuore era molto in sofferenza, avevo la pressione alle stelle e i medici mi somministravano in continuazione il lasix. Che odio verso il lasix, non ne potevo più. Ma tranquilli è successo solo a me! Molte mie amiche durante il trapianto hanno dormito e giocato a carte! Ma nonostante il mio fisico fosse in sofferenza, in particolare il cuore, l’emozione era impagabile.

Dal giorno del trapianto sento il mio cuore battere per due. Ero felice perché su quel letto c’era cenere che presto si sarebbe trasformata in fenice.

Ero felice perché nella mia vita non avrei avuto più timori. Ero felice perché presto o tardi quella vita fatta di attenzioni a tutto, anche a un minimo raffreddore o ad un semplice taglietto sulla mano, sarebbe diventata un’opportunità di miglioramento e di guardare verso il futuro non più con paura. Ero felice perché non avrei più vissuto nel terrore e nel dubbio. Ero felice perché avevo delle sicurezze in più. Ero felice perché il giorno prima era stato in visita nella chiesa dell’ospedale l’arcivescovo di Milano Delpini e gli avevano chiesto di venirmi a trovare in stanza sterile e da quel momento ho capito di essere nelle mani di Dio, in quel momento più che mai. Ero felice e non so neppure il perché. Penso che una felicità simile la puoi assaporare solo una volta nella vita e io posso dire di averla provata.

Cara donatrice,

Ho aspettato per una vita un qualcosa che mi facesse stare meglio e poi alla fine ho trovato te che non mi hai solo migliorato la qualità vita, ma mi hai salvato la vita, me l’hai resa migliore, e soprattutto mi hai guarito da una malattia genetica rara, che mi ha messo a dura prova sin da quando ero bambina.

Non so chi tu sia, ma sappi che era una vita che ti aspettavo. 

Mi piacerebbe dire che da quel momento ci siano state solo discese ma non è stato così. Ad ogni sfida che mi si presenta, l’accetto come una nuova opportunità che la vita mi sta dando.

Io ho solo un desiderio nella mia vita ossia quello di invitare le persone a donare. A donare in qualsiasi forma loro vogliano perché noi abbiamo bisogno di voi. Perché io se sono guarita, oltre alla mia donatrice, è stato anche grazie alla ricerca e ai miei favolosi medici. Auguro a tutti di innamorarsi di quella parte più intima di sé che è il DNA.”

Annamaria

 

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